Zebù bambino, poemetto di Davide Cortese, appare, già dal titolo, fondato sull’antitesi con Gesù bambino, in un gioco cromatico di neri e di bianchi come a muovere i passi sul suolo di una scacchiera. Sin dai primissimi versi, infatti, si viene catapultati all’interno di una favola poetica, che spinge il lettore a meditare sull’impossibilità filosofica di trovare una frontiera tra l’ombra e la luce in cui, addirittura, Scoccano insieme / la mezzanotte e il mezzogiorno. Ed è in questa sovrapposizione dualistica che si apre la ferita esistenziale del piccolo Zebù, che vede riflessi i suoi due volti, uno di luce e l’altro di ombra, proprio nello specchio delle ginocchia sbucciate - metafora di una ferita primigenia e originaria, attorno alla quale si avvinghia l’intero poemetto. Il forte contrasto di toni appare già nella scelta dell’autore di trattare una tematica tanto complessa con uno stile semplice e canoro. Tant’è che la forte inquietudine pare venga messa quasi in secondo piano rispetto alla musicalità stilistica. Caratteristica però giustificabile, se si pensa poi, che il protagonista dell'opera è un infante, anche se si tratta, nientemeno, che di Mefistofele piccino. Ma volendo parlare della ferita poc’anzi menzionata, e volendo mettere già da ora faccia a faccia Zebù con la sua nemesi, v’è una figura concessa a Gesù per opera di Dio, ma negata nell’infanzia di Zebù; figura che potrebbe fungere da spunto per soffermarsi sull’argomento dell’assenza, e sarebbe a dire l’immagine materna che, all’interno del poemetto, è vissuta da Zebù come una ricerca vertiginosa, ma anche stramba e inquietante: Gioca ai dadi con le bambole / il piccolo Zebù. / A una ha dato il nome / della madre di Gesù. Scena, questa, con la quale l’autore parrebbe mettere in video il dramma di una maternità artificiale dai toni evangelici e, a ben guardare, anche edipici. E sembrerebbe essere, andando per logica, proprio questa mancanza la scaturigine delle perdizioni e delle trasgressioni di Zebù che, a guisa di marachelle e disobbedienze, va a formare i baluardi della sua vita - si potrebbe azzardare: “bohémien” - che interessano, tra l’altro, la maggior parte del poema. Ci si trova, pertanto, alle prese con un lungo elenco di comportamenti sardonici che vanno dal chiudere gli amici nel capanno, al mandare al cimitero la maestra che si lagna - volendo parafrasare lo stesso autore. In questi suoi lascivi giochi, e in questa vita che, com’è desumibile solitaria, sono solo i dannati che sebbene lo conoscano / chiedono “chi sei sei sei?” sembrerebbero riempire quella grande mancanza materna, del prossimo e, infine, di Dio. Ed è proprio Dio il fulcro dell’opera. L’assenza di questo “magistero paterno” è, infatti, la causa di tutta una serie di ritorsioni nei confronti della vita. Con questa motivazione, infatti, si può ben dedurre l’incapacità di Zebù di accettare le cose così per come sono (Vuole un sole che non sia giallo). Ma volendo già chiudere l’ampio discorso che finirebbe certamente per aprirsi intorno alla tematica scelta da Davide Cortese, e alla sua relativa semplicità, a colpire più di tutto - anche dal punto di vista narrativo e ideativo - è la scena di profonda dolcezza con cui si concludere la storia di Zebù. Mentre la sua infanzia fino ad ora è stata dedita al male e all’ipocrisia (tutti comportamenti che sembrerebbe aver imparato dagli uomini), negli ultimi versi vi è un lieto fine del tutto inaspettato, il quale viene annunciato quasi fosse una promessa (la stessa, forse, che vedrà gli esseri umani riuniti nell’amore di Dio) per la quale Zebù si abbandonerà all’amore del Padre nella comunione con il Figlio.
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Pubblicato in data 20-05-2022 | hits (741) | da: Michelazanarella
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