Nel cuore dell’Europa medievale, tra superstizioni, ignoranza e mistero, i gatti vissero un’epoca buia tanto quanto i secoli in cui vissero. Sebbene oggi siano considerati animali domestici amati, nel Medioevo furono a lungo vittime di leggi, processi e credenze che li resero protagonisti di una delle pagine più strane della storia europea.
Uno dei casi più curiosi emerse in Francia e Germania nel XIV secolo, quando si diffuse una sorta di “trattato” non ufficiale che suggeriva di tenere sotto controllo la popolazione felina. Il documento — oggi perduto ma citato da cronisti dell’epoca come Gervais di Tilbury e ripreso da fonti ecclesiastiche — consigliava ai villaggi di limitare il numero di gatti neri, associati al demonio, e proponeva perfino delle “quote feline” per casa.
Queste credenze non erano mere superstizioni folcloristiche: durante i secoli della peste nera (1347-1351), i gatti furono uccisi in massa per timore che fossero alleati del male. Ironia della sorte, la riduzione del numero di gatti favorì l’aumento dei topi… e quindi il dilagare della peste.
La Chiesa, in alcune aree d’Europa, arrivò a promulgare veri e propri decreti religiosi contro i gatti, soprattutto quelli neri, visti come compagni delle streghe. In molte città, il sabato prima della quaresima, si celebravano rituali di “purificazione” che prevedevano il rogo di sacchi contenenti gatti vivi — una pratica oggi inimmaginabile, ma allora ritenuta utile a “liberare l’anima della città dal male”.
Eppure, in parallelo, altre culture medievali, come quella araba o cinese, avevano nei gatti un animale sacro, intelligente e utile. Perfino Maometto, secondo alcuni hadith, amava profondamente i gatti.
Solo nel Rinascimento l’Europa cominciò lentamente a riabilitare l’immagine del gatto, grazie anche alla diffusione delle scienze naturali e al calo dell’influenza di alcune superstizioni religiose. Da lì in poi, la lenta ma inesorabile riabilitazione portò i gatti dai roghi pubblici al salotto borghese.