Nella straordinaria Mesopotamia del VI secolo a.C., al confine tra mito e realtà, si dice siano stati creati i celebri Giardini Pensili di Babilonia. Pensati per stupire la regina Amitis, questi giardini avrebbero riprodotto in cima a un terrazzo un paesaggio verdeggiante, in netta contrapposizione all’arido deserto circostante. Dietro la leggenda si nasconde però una svolta epocale per la botanica antica: tecniche di irrigazione innovative, raccolta di specie vegetali esotiche e un nuovo approccio alla coltivazione che influenzarono l’orticoltura in tutta l’area mesopotamica. In questo articolo andremo a esplorare le fonti antiche, la sapienza ingegneristica dei babilonesi e l’eredità botanica che, tra scienza e magia, ha cambiato la storia del verde nel mondo antico.
1. Contesto storico e culturale di Babilonia nel VI secolo a.C.
Babilonia, sotto il regno di Nabucodonosor II (605–562 a.C.), era una delle città più potenti e sofisticate dell’Antichità. Centro politico, religioso ed economico, vantava maestosi templi, vaste mura difensive e un fiorente commercio lungo il fiume Eufrate. La regina Amitis, di sangue medianico, proveniva da una regione collinare verdeggiante: il suo desiderio di ritrovare i boschi d’origine stimolò il re a creare un giardino che evocasse le montagne della Media, dando vita al mito dei “Giardini Pensili”.
In realtà, l’area attorno a Babilonia era già ricca di orti e frutteti: i babilonesi avevano da tempo sviluppato sistemi di irrigazione tramite canali derivati dall’Eufrate e pozzi meccanici. Tuttavia, nessuno aveva tentato di portare il verde in verticale, su terrazze artificiali. Alcuni storici antichi come Diodoro Siculo e Quinto Curzio Rufo, scrivendo qualche secolo dopo, descrissero strutture colossali, con alberi secolari piantati su piattaforme sorrette da colonne. Pur essendo dettagli spesso discutibili, questi resoconti attestano l’immenso interesse suscitato da quell’opera.
2. Ingegneria idraulica: l’innovazione nei sistemi di irrigazione
Per comprendere il vero impatto botanico dei Giardini Pensili, bisogna partire dall’ingegneria idraulica. Gli agronomi babilonesi utilizzavano già:
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Canali e rampe di derivazione: condotte in mattoni rivestite di bitume per trasportare l’acqua dell’Eufrate verso i campi.
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Shaduf (o nabur): leve manuali con secchi appesi, impiegate per sollevare l’acqua dai canali ai campi più alti.
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Pozzi circolari e ruote idrauliche ad asse orizzontale (forse antenati della noria) per sollevare grandi quantità d’acqua.
Per sostenere i Giardini Pensili, si dovette potenziare questo sistema. Secondo le ricostruzioni archeologiche, nelle vicinanze del Palazzo Reale vennero allestite una serie di pozzi scavati nel substrato sabbioso, collegati a un ingegnoso circuito di tubature ceramiche e canne in bambù. Le tubature risalivano verso il primo livello di terrazze, alimentando vasche di raccolta da cui partivano condotte secondarie verso vasche più piccole e aiuole rialzate. Ogni terrazzamento – probabilmente tre o quattro – necessitava di una portata costante: i pozzi dovevano essere azionati da squadre di operai o da ruote azionate da animali, in grado di mantenere i vasi e il terreno umido nelle stagioni più calde.
Questa verticalizzazione dell’irrigazione è documentata anche nelle tavolette cuneiformi riscoperte a Nippur e Ur, dove si parla di “giardini celesti” e “acqua che raggiunge il cielo”. Sebbene non sia certo che le fonti si riferiscano specificamente ai Giardini Pensili, è chiaro che l’idea di sfruttare l’acqua in altezza contribuì a innovazioni nella distribuzione idrica, poi applicate ai campi circostanti.
3. Selezione delle piante: esotismo e importazione di specie
Un elemento fondamentale che rese unico il giardino babilonese fu la selezione di specie vegetali. Nel bacino mesopotamico cresceva già:
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Palme da dattero (Phoenix dactylifera)
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Susini e melograni
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Pani di erbe aromatiche come coriandolo e prezzemolo
Ma nei Giardini Pensili, secondo le fonti, si potevano ammirare anche piante esotiche importate da terre lontane:
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Cedri del Libano (Cedrus libani), simbolo di regalità, provenienti dalle montagne fenicie.
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Alberi di melo selvatico (Malus sieversii), giunti dalla regione caucasica, in grado di offrire frutti più simili alle moderne mele.
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Edera e uva da tavola aggiunte per creare “pareti verdi” lungo le terrazze, sfruttando pendii e pergolati in legno.
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Banani africani o piante tropicali simili (forse piantate in grandi vasi), capaci di farsi notare per l’aspetto lussureggiante in un ambiente desertico.
L’importazione di queste specie comportò un primo approccio alla botanica comparata: i giardinieri reali dovevano capire la quantità di sabbia, argilla e compost necessaria, il regime di annaffiature e l’esposizione solare. Le tavolette ritrovate nel deposito di biblioteca di Ninive parlano di “semi preziosi” consegnati da mercanti fenici e persiani, custoditi in recipienti di terracotta. La conoscenza di queste piante rimase poi patrimonio dei giardinieri della Mesopotamia e, attraverso le successive dinastie achemenidi, si diffuse in Persia, India e, infine, nella tradizione ellenistica.
4. Giardini come laboratorio botanico: tecniche di potatura e innesto
Il fiore all’occhiello della botanica babilonese non si limitava all’importazione: gli orticoltori realizzarono un vero e proprio laboratorio vivo su terrazze rialzate:
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Potatura stagionale: alcune tavolette descrivono il taglio di rami per favorire lo sviluppo di frutti più grandi. Si trattava di una procedura cauta, a volte chiamata “taglio dell’aria”, volta a bilanciare l’ombra e la luce per ogni singolo cespuglio.
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Innesti: i giardinieri copiavano tecniche di innesto “a spacco” affinate in Anatolia. Grazie all’umidità controllata delle terrazze, riuscivano a creare nuove varietà ibride di susini e meli, aumentando produzione e resistenza alle malattie. Ciò si rivelò particolarmente utile quando, tra il 540 e il 520 a.C., alcune piaghe di insetti (probabilmente cimici del cotone) colpirono i campi circostanti: le piante innestate sui Giardini Pensili resistettero meglio, diffondendo poi le nuove varietà anche in pianura.
Il giardino svolse quindi funzione di centro di sperimentazione, in cui l’osservazione diretta, la trasmissione orale e le tacite note in codici cuneiformi diedero vita a un corpus di conoscenze sul ruolo del suolo, dell’acqua e dei nutrienti. Queste pratiche di potatura e innesto si diffusero nell’area babilonese e furono citate secoli dopo nei manuali di agronomia di epoca seleucide.
5. L’aspetto simbolico: scienza, magia e religione
Per i babilonesi, la distinzione tra scienza empirica e magia era sottile. Nel pantheon mesopotamico, il dio Enki (patrono delle acque) e la dea Ishtar (associata alla fertilità) venivano invocati per garantire abbondanza e protezione alle coltivazioni. I Giardini Pensili divennero quindi anche un luogo di rito e culto:
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Cerimonie di benedizione: all’inizio della primavera, i sacerdoti aspiravano incenso e recitavano preghiere invocando Enki per far scorrere l’acqua pura dalle piramidi d’acqua (ankus).
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Diffusori di aromi: si bruciavano resine di cedro e mirra lungo i viali per “purificare” e allontanare gli spiriti maligni, secondo gli testi magici ritrovati a Babilonia.
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Opere d’arte incise su mattoni smaltati raffiguravano divinità e scene agricole; gli epigrafi incitavano i giardinieri a “conoscere la lingua delle piante” per dialogare con il loro spirito vegetale.
Questa contaminazione tra empiria e misticismo contribuì a volte a rallentare la trascrizione scritta delle tecniche: molte conoscenze rimasero confinate nel “segreto del tempio”. Tuttavia, quando Alessandro Magno conquistò Babilonia nel 331 a.C., i greci ebbero accesso a questi misteri e li integrarono nel loro sapere botanico, gettando le basi per le prime “stazioni sperimentali” di Pella e Alessandria.
6. Eredità e declino: dai Giardini Pensili all’orticoltura ellenistica
Dopo la morte di Nabucodonosor II (562 a.C.), i successori non dedicarono più risorse alla manutenzione dei giardini, concentrandosi su questioni politiche e militari. Nel 482 a.C., la rivolta di Babilonia contro l’impero persiano – seguita dalla distruzione parziale della città – causò l’interruzione dell’approvvigionamento idrico. Le colonne e le vasche iniziarono a sgretolarsi e le piante autoctone ripresero terreno, facendo sparire in decenni ogni traccia visibile.
Tuttavia, il sapere botanico creato tra le terrazze era ormai patrimonio di studiosi e mercanti. Durante l’epoca seleucide (312–63 a.C.) e in seguito con i Romani, si trovano riferimenti a orticolture pensili e a tecniche di irrigazione prese in prestito dal sistema babilonese. Il trattato di Teofrasto “Sulle piante” (IV secolo a.C.) menziona alberi innestati in grandi contenitori portati in giardini rialzati, un approccio direttamente erede dell’esperienza mesopotamica. Le ville romane in Campania e in Sicilia, con i loro orti pensili, dimostrano l’influenza di quella tradizione millenaria.