Nel remoto fiordo di Þorskafjörður, nella regione nord-occidentale dell’Islanda, sorge Rauðafjörður (nome fittizio ispirato a diverse comunità reali), un piccolo insediamento composto da meno di cento abitanti. Qui, negli anni Cinquanta, gli abitanti presero una decisione impensabile: rifiutare il collegamento alla rete elettrica nazionale, scegliendo di vivere ancora in gran parte “alla vecchia maniera”. Questo villaggio arcaico, spesso citato come esempio di sostenibilità e rispetto delle tradizioni, sviluppò nel tempo un proprio equilibrio tra risorse naturali, valori culturali e autonomia energetica. Esploreremo come e perché questa comunità decise di rinunciare all’elettricità, quali soluzioni adottò per sopravvivere in un ambiente così inospitale e cosa possiamo imparare oggi dal loro stile di vita.
1. Le radici storiche e culturali di Rauðafjörður
1.1 Fondazione e colonizzazione
Rauðafjörður fu fondato verso la metà del XVIII secolo da un gruppo di pastori provenienti dal sud dell’isola. Le famiglie si stabilirono in una baia riparata, circondata da gole rocciose e sorgenti termali naturali. Il clima rigido e i venti del Nord Atlantico rendevano l’agricoltura difficile, perciò gli abitanti si dedicarono alla pastorizia di pecore e capre, alla pesca costiera e alla raccolta di alghe. Il villaggio si caratterizzò fin da subito per una forte coesione sociale, basata su mutualismo: ogni famiglia contribuiva al benessere collettivo, offrendo manodopera per la costruzione delle case, la lavorazione delle pelli e la condivisione dei raccolti.
1.2 Valori tradizionali e la diffidenza verso la modernità
Fino agli anni Quaranta, l’isolamento geografico consolidate una mentalità di autosufficienza: nonostante in altre regioni dell’Islanda si iniziasse a parlare di elettrodotti e motori a combustione interna, a Rauðafjörður si faceva largo uso di antiche conoscenze ereditate da generazioni. Il villaggio divenne noto per l’abilità nel ricavare calore dalle sorgenti geotermiche, per l’uso delle alghe come concime naturale e per le tecniche di conservazione del pesce mediante affumicatura e salatura. Questa cultura “fuori dal tempo” creò un atteggiamento di diffidenza verso le innovazioni tecnologiche, viste come potenziali minacce all’equilibrio locale e alla coesione della comunità.
2. La decisione di rifiutare l’elettricità
2.1 Il progetto di elettrificazione negli anni Cinquanta
Nel 1953 il governo islandese avviò un piano per portare l’energia elettrica rurale nelle regioni più isolate, finanziato dall’Èton Bank of Iceland. Furono posati cavi a lunga distanza, costruite piccole centrali idroelettriche e offerto alle comunità un bonus per collegarsi: un allaccio gratuito per ogni villaggio. A Rauðafjörður, però, sorgano dubbi: i costi di manutenzione avrebbero gravato su un bilancio già precario, e l’arrivo dell’elettricità poteva – a loro avviso – indebolire lo spirito di collaborazione tra le famiglie, sostituendo le attività manuali con salotti illuminati e apparecchi radio.
2.2 L’assemblea della comunità e la motivazione principale
Nel luglio del 1954 si tenne un’assemblea generale aperta a tutti gli abitanti. Presero la parola anziani, pastori, pescatori e alcune delle poche donne con ruoli di rilievo (le donne gestivano la parte domestica e la tessitura delle lane). Dopo due giorni di discussioni, emerse un punto di vista condiviso: «Se ci colleghiamo alla rete elettrica, perderemo la nostra indipendenza; le luci artificiali ci allontaneranno dall’orologio del sole e dalle stagioni, e il lavoro comunitario diventerà superfluo». Venne redatto e firmato un atto di rifiuto: ogni famiglia dichiarava esplicitamente di voler mantenere le pratiche tradizionali, senza elettricità, e di rinunciare a qualsiasi forma di sostegno statale relativo all’energia elettrica.
3. Vivere senza elettricità: soluzioni sostenibili adottate
3.1 Il calore geotermico e l’uso delle sorgenti naturali
Senza elettricità, il villaggio dovette affinare le tecniche per sfruttare al meglio le sorgenti termali: vennero costruite piccole abitazioni di pietra con pavimenti riscaldati da tubi in rame che convogliavano acqua solforosa a 50–60 °C. La temperatura interna delle camere rimaneva costante intorno ai 15–17 °C, sufficiente a sopportare gli inverni più rigidi. Inoltre, nel sottosuolo furono scavate stanze di essiccazione del pesce, in cui si creava una sorta di sauna naturale, in grado di ridurre i tempi di affumicatura da settimane a pochi giorni.
3.2 Illuminazione con olio e candele di sego
Per l’illuminazione serale si fece ricorso a lampade ad olio di balena (fino agli anni Sessanta) e, in seguito, a candele di sego ricavate dallo scarto delle pelli delle pecore. Le lampade divennero vere e proprie opere artigianali: vasetti in ceramica locale decorati con motivi vichinghi, stoppini intrecciati a mano e olio arricchito con alghe essiccate per ridurre il fumo e odorare leggermente la stanza di salmastro. Anche senza elettricità, l’intero villaggio organizzava serate di lettura collettiva: un anziano leggeva saghe islandesi a lume di candela, mentre i bambini ascoltavano rincantucciati sotto le coperte di lana.
3.3 Lavoro manuale e cooperazione quotidiana
Ogni abitazione produceva la propria farina, macinata con mulini a pedali azionati da donne e ragazzi. La spremitura dell’olio di pesce avveniva ancora con macine tradizionali in pietra. Il cibo – principalmente pesce, pane d’orzo, latte di capra stagionato e alghe secche – veniva preparato in grandi recipienti di rame posizionati sopra pietre scaldati dalle sorgenti. I pasti quotidiani erano consumati in una sala comune, dove almeno tre volte a settimana si tenevano assemblee familiari per decidere turni di pesca, raccolta legna e manutenzione delle tubature geotermiche.
4. Le sfide climatiche e le strategie di adattamento
4.1 L’inverno artico e la vita al chiuso
Gli inverni a Rauðafjörður durano da ottobre ad aprile, con temperature che scendono a –10 °C e venti ghiacciati. Senza elettricità, ogni famiglia doveva affidarsi alle stufe a legna e ai sistemi di riscaldamento geotermico collettivo. Le case, costruite con pietre laviche locali, avevano pareti spesse e finestre molto ridotte per limitare le dispersioni di calore. Ogni abitante doveva portare legna a sufficienza per coprire l’intera stagione: vennero istituite squadre di taglialegna che lavoravano in turni, garantendo scorte per tutta la comunità.
4.2 La conservazione del cibo e la dieta stagionale
Per sopravvivere ai mesi scarsi di luce e calore, vennero perfezionate tecniche di conservazione senza frigorifero:
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Affumicatura e salatura del pesce: i rituali di salatura avvenivano ancora nelle antiche baracche di legno, con strati di sale marino alternati a strati di aringhe e merluzzi, disposti su travi sospese.
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Essiccazione delle alghe: raccolte durante l’estate e disposte su graticci di legno, le alghe venivano poste in luoghi ben ventilati e protetti dal freddo, diventando una preziosa fonte di iodio e minerali.
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Formaggi di capra stagionati: il latte delle capre veniva trasformato in formaggi a pasta dura, lasciati stagionare in grotte naturali a temperatura costante di circa 4 °C.
Questa dieta, seppur monotona, fu studiata per fornire calorie, proteine e vitamine essenziali ai mesi invernali, riducendo al minimo la dipendenza da rifornimenti esterni.
5. Impatto sociale e culturale della scelta off-grid
5.1 Coesione comunitaria e identità condivisa
La decisione di rinunciare all’elettricità rafforzò l’identità collettiva di Rauðafjörður. Ogni famiglia, pur conservando la propria indipendenza economica, partecipava attivamente alla vita della comunità. I riti stagionali—come il Pranzo dei Settanta Pecore (celebrazione di inizio inverno in cui si consumano piatti a base di carne e formaggi) e la Festa della Luce del Sole (in onore del ritorno progressivo delle giornate più lunghe)—furono reinterpretati in chiave antielettrica: si spegnevano le luci delle lanterne all’alba per ammirare il lento risveglio del paesaggio, ringraziando la natura per il calore geotermico.
5.2 Conservazione del patrimonio culturale
Senza la televisione o la radio, a Rauðafjörður si mantenne viva la tradizione dell’oralità: saghe, filastrocche, ricette e conoscenze mediche locali (preparazione di tisane con erbe selvatiche) venivano tramandate per via orale. Questo preservò un patrimonio linguistico: la parlata locale, ricca di vocaboli del vecchio norreno, sopravvisse praticamente intatta fino agli anni Ottanta. Già allora, con il miglioramento delle strade e l’arrivo di qualche trasmettitore radio, i giovani iniziarono a desiderare radio a pile o generatori, ma la comunità, attraverso assemblee annuali, confermò la volontà di mantenere il rifiuto dell’elettricità per almeno un’altra generazione.
6. L’evoluzione recente e il futuro sostenibile
6.1 L’arrivo del fotovoltaico e dei piccoli generatori a bioetanolo
Negli ultimi dieci anni, alcune famiglie hanno iniziato a installare pannelli solari fotovoltaici a bassa potenza, alimentando lampade LED a consumo ridottissimo. Questi pannelli non sono collegati alla rete principale, ma funzionano in modo autonomo, immagazzinando energia in piccole batterie al litio. Allo stesso tempo, si è diffuso l’uso di generatori a bioetanolo ricavati dagli scarti di patate e orzo: alimentano una stufa ibrida che produce calore e genera un po’ di corrente per ricaricare cellulari e raggiungere il vicino villaggio di Djúpavík per telefonare o inviare messaggi.
6.2 Progetti di ecoturismo e valorizzazione della tradizione
Per finanziare la manutenzione delle strutture comuni (pozzi geotermici, mulini a pedali e baracche di essiccazione), la comunità ha avviato un progetto di ecoturismo. Visitatori interessati possono soggiornare in piccole casette di legno arredate secondo lo stile tradizionale, partecipare alle attività di pesca, imparare antiche tecniche di cucina senza elettricità e osservare le aurore boreali lontano da qualsiasi inquinamento luminoso. I proventi del turismo sostenibile vengono reinvestiti in opere di manutenzione: ristutturazione delle tubature geotermiche, coibentazione delle case e restauro di mulini e fucine.