Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con il mondo ancora sconvolto ma affamato di progresso, molti inventori si lasciarono trasportare da un eccesso di ottimismo tecnologico. Tra le idee più assurde nate in quel periodo c'è la bicicletta a razzo, un progetto tanto audace quanto pericoloso, simbolo di un’epoca in cui il confine tra genio e follia era spesso molto sottile.
Uno dei più noti esperimenti in questo senso fu quello del tedesco Fritz von Hoppe, un ex ingegnere aeronautico che, nei primi anni '50, cercò di combinare il principio della propulsione a razzo con un semplice telaio da bicicletta. L’idea era “semplice”: dotare la parte posteriore della bici di una serie di piccoli razzi a combustibile solido, attivabili tramite un manubrio modificato.
Il primo e unico test documentato finì, prevedibilmente, in modo disastroso. Dopo qualche secondo di accelerazione incontrollata, la bicicletta si alzò leggermente da terra, sbandò e si schiantò contro un fienile. Il conducente – fortunatamente equipaggiato con un rudimentale casco – se la cavò con qualche escoriazione, ma l’esperimento non fu mai replicato ufficialmente.
Nonostante l’apparente assurdità, altri prototipi simili vennero realizzati anche in Svizzera, negli Stati Uniti e in Giappone. Alcuni raggiungevano anche i 100 km/h, ma nessuno trovò una vera applicazione commerciale per ovvie ragioni di sicurezza, stabilità e... buon senso.
Oggi, alcuni dei modelli superstiti sono esposti in musei della tecnologia o rievocati da appassionati di retrofuturismo. Sono una testimonianza affascinante di quanto l’entusiasmo post-bellico abbia spinto i limiti dell’ingegneria fino all’assurdo.
La bicicletta a razzo resta, ancora oggi, uno dei simboli più iconici della follia creativa umana: un’idea tecnicamente realizzabile, ma totalmente impraticabile nella realtà quotidiana.