In Corea del Sud, esiste un luogo dove le persone scelgono volontariamente di “morire” per vivere meglio. No, non è un film distopico né una setta segreta: è un vero e proprio rituale psicologico che si svolge in alcuni centri benessere e accademie della felicità sparse nel paese, e che sta prendendo sempre più piede. Il nome? “Living Funeral”, ovvero il funerale da vivi.
Questo rito singolare ha un obiettivo profondo e drammatico: aiutare le persone a riscoprire il valore della vita passando, simbolicamente, attraverso la propria morte. La pratica consiste in una simulazione completa di un funerale: si scrive il proprio testamento, si indossa il sudario, si entra in una bara di legno, si ascoltano musiche funebri e si rimane lì, chiusi, per diversi minuti, a riflettere sul senso dell’esistenza. Tutto con la supervisione di guide esperte.
Ma cosa spinge una persona a sottoporsi a un’esperienza così estrema?
La Corea del Sud, dietro al suo volto ultratecnologico e all’avanzata economia, convive con un lato oscuro: una delle percentuali di suicidi più alte tra i paesi OCSE. La pressione sociale, il culto del successo e il tabù sulla salute mentale portano molti coreani a un punto di rottura. È in questo contesto che nasce l’idea di morire simbolicamente per salvarsi davvero.
Secondo testimonianze dirette, chi ha partecipato al rituale riferisce una trasformazione radicale: si acquisisce una nuova consapevolezza, si rivalutano le relazioni, si ridimensionano le preoccupazioni materiali. Alcuni raccontano di aver finalmente trovato il coraggio di lasciare un lavoro tossico, chiudere relazioni logoranti o dedicarsi a ciò che davvero amano.
Il fenomeno ha attirato l’interesse anche di psicologi e studiosi, che riconoscono l’efficacia simbolica dell’esperienza: affrontare la morte — anche solo come finzione — aiuta a rompere le abitudini mentali distruttive e a vedere la vita da una prospettiva diversa. È una sorta di shock emotivo, ma in positivo.



