Nel mondo esistono leggi strane, ma poche sono bizzarre quanto quelle che regolano la scelta dei nomi di battesimo. In Giappone, ad esempio, il sistema anagrafico non consente di chiamare i propri figli con nomi “potenzialmente problematici”. E quando una coppia cercò di registrare il proprio neonato con il nome “Lucifero”, si trovò invischiata in una burocrazia tanto surreale quanto rigida. Una storia vera che mostra fino a che punto può spingersi lo Stato nel controllare… l’identità.
Una questione di ideogrammi e significati
Nel 1993, una giovane coppia giapponese decise di chiamare il proprio primogenito Akuma (??), un nome composto dagli ideogrammi “malvagio” e “spirito” – ovvero: “diavolo”. A differenza dell'Occidente, dove nomi come “Lucifer” sono visti come eccentrici ma legali, in Giappone l’uso dei kanji (caratteri cinesi) è regolato da una lista approvata dal governo. E il nome scelto violava più di una norma.
L’ufficio dell’anagrafe si rifiutò di registrare il bambino con quel nome, definendolo dannoso per il benessere del minore. I genitori protestarono, sostenendo il loro diritto alla libertà di scelta. La vicenda fece rapidamente il giro dei media giapponesi, scatenando un dibattito pubblico che raggiunse persino il Parlamento.
Quando lo Stato dice “no” al nome del tuo bambino
Il Ministero della Giustizia intervenne formalmente, affermando che il nome “Akuma” era contrario all’ordine pubblico e al buon costume, e che i genitori potevano essere obbligati a cambiarlo. A nulla valsero le obiezioni: la burocrazia era inflessibile.
Nel frattempo, il neonato restava ufficialmente “senza nome” agli atti, in una sorta di limbo amministrativo. Dopo settimane di proteste, la coppia fu costretta a cedere: il nome “Akuma” venne cancellato, e il bambino venne registrato con un nome alternativo, scelto dalle autorità locali.
Un caso che ha lasciato il segno
Il “caso Akuma” rimane tuttora uno degli episodi più assurdi della burocrazia giapponese. E ha avuto conseguenze concrete: negli anni successivi, il Ministero ha stilato linee guida ancora più restrittive sull’uso dei kanji nei nomi propri.
Ad oggi, in Giappone non è possibile registrare nomi che:
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utilizzano kanji con significati negativi o inquietanti
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contengano ideogrammi fuori dalla lista ufficiale del Ministero
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siano ritenuti “dannosi per l’ordine pubblico”
Insomma, puoi chiamare tuo figlio “Sole”, “Tempesta” o “Drago”, ma non “Morte” o “Satana”. Una sottile linea tra folklore, sensibilità sociale e controllo burocratico.
Quando la libertà ha limiti curiosi
Il Giappone non è l’unico Paese con restrizioni sui nomi. In Germania è vietato dare nomi che non definiscano chiaramente il sesso. In Nuova Zelanda è vietato chiamare un bambino “4Real”, “V8” o… “Lucifer”. E in Islanda esiste un apposito Comitato per l’Approvazione dei Nomi.
Ma il caso giapponese colpisce per la sua serietà e per la lunga battaglia legale che ne seguì. Un esempio perfetto di come una burocrazia assurda possa trasformare una semplice scelta personale in un caso di Stato.